Letture consigliate. Intervista a William H. Hill, autore di No Place for Russia – European Security Institutions since 1989 (“Non c’è posto per la Russia – le istituzioni europee di sicurezza dal 1989”)
Com’è potuto accadere che l’Europa, che alla fine della Guerra fredda venne salutata ottimisticamente come unita, libera e in pace, si sia ritrovata dopo tre decenni con relazioni compromesse da sfiducia e aperta ostilità? Nel suo nuovo saggio No Place for Russia – European Security Institutions since 1989, William Hill sostiene che si tratta di una situazione che nessuno voleva, frutto di una serie di decisioni prese per motivi spesso comprensibili in quanto tali, ma che sommati hanno portato a uno stallo.
Woodrow Wilson Center Press/Columbia University Press, 2018
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(immagine di copertina per gentile concessione dell’autore)
Professore di storia che ha studiato all’Università di Leningrado nello stesso periodo di Putin e a lungo diplomatico degli Stati Uniti e funzionario dell’OSCE (due volte Capo della Missione in Moldova), Hill ripercorre in oltre 400 pagine la storia delle interrelazioni tra le istituzioni europee di sicurezza NATO, UE e OSCE dal 1989 all’inizio del conflitto in Ucraina nel 2014, quando, a suo avviso, l’era post-Guerra fredda può definirsi conclusa.
In questa intervista Hill parla del suo saggio e riflette sull’OSCE e sulle potenzialità che le erano state attribuite e che le è stato impedito di sviluppare appieno – almeno sino a oggi.
Può dirci qualcosa in merito alla scelta del titolo del suo saggio: ‘Non c’è posto per la Russia’?
William Hill: Il titolo ‘No Place for Russia’ (Non c’è posto per la Russia) si può intendere in molti modi diversi e per questo mi piaceva. Lo si può interpretare come un ordine o un’istruzione: la Russia non dovrebbe stare qui. Può essere altrimenti considerato come un commento oppure come la costatazione di un risultato. Per me significa che ci abbiamo provato, ma alla fine siamo approdati a un sistema in Europa dove non c’è posto per la Russia. Credo che questo non fosse il risultato che ci eravamo prefissati e nemmeno il risultato auspicato dagli Stati Uniti, dai nostri alleati occidentali o dalla Russia. Negli anni Novanta e, di fatto, fino alla guerra in Georgia nel 2008, vi è stata sostanzialmente una cooperazione, abbiamo collaborato strettamente in molti ambiti. Abbiamo tuttavia preso delle decisioni su diverse questioni per varie ragioni e alla fine la Russia è risultata esclusa, isolata, emarginata da alcune delle più importanti istituzioni dell’ordine di sicurezza europeo.
Quali sono state alcune di queste decisioni?
Hill: L’UE disse fermamente sin dall’inizio che la Russia non poteva essere un membro dell’UE perché troppo grande e troppo diversa e si decise invece che l’UE avrebbe instaurato una relazione speciale con la Russia. Una soluzione che funzionava meglio forse quando la metà dei paesi europei erano membri dell’UE e l’altra metà non lo erano. Quando però l’UE passò a oltre venti paesi membri e la Russia si ritrovò da sola, il risultato fu un palese squilibrio.
Con la NATO la situazione è più ambigua poiché in diverse occasioni la Russia, sia con Eltsin che, a volte, con Putin, aveva menzionato la possibilità di divenire membro dell’Alleanza ma per varie ragioni non lo ha mai fatto, non presentando mai una richiesta di adesione. E nel decidere di espandere la NATO, le nazioni dell’Occidente hanno cercato a loro volta di costruire una relazione speciale con la Russia. Tuttavia, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti – io ho partecipato alle delibere negli USA e successivamente ai negoziati con la Russia sul primo allargamento della NATO – si decise chiaramente che pur nutrendo interessi importanti nelle relazioni con la Russia, altrettanto importanti erano i nostri interessi affinché la transizione dei paesi dell’Europa centrale avesse successo. Ed è così che decidemmo di dare priorità all’Europa centrale. Questa è una di quelle decisioni: era comprensibile, in generale ha funzionato piuttosto bene per l’Europa centrale e per un certo periodo ha funzionato anche per la Russia, ma alla fine ha posto la NATO su un percorso che escludeva la Russia.
Nel 2004–2005 sono iniziate le lamentele della Russia e non perché la NATO fosse ai loro confini o perché rappresentasse un pericolo. I russi, durante le riunioni dell’OSCE o su importanti pubblicazioni russe, si lamentavano di essere stati esclusi. Un autore russo lo spiegava così: l’architettura di sicurezza occidentale è come un locale notturno. Ci consentite di entrare nel locale e di sedere in sala, ma non ci lasciate sedere al bar e comprare da bere. Non possiamo partecipare alle decisioni importanti.
Ciò emerge chiaramente soprattutto nelle loro critiche verso il riconoscimento del Kosovo nel 2008. Mentre l’Occidente – l’UE e gli USA – decise essenzialmente a titolo unilaterale che avevamo bisogno di riconoscere il Kosovo per scongiurare la destabilizzazione, i russi, benché fossero parte della Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU sulla fine del conflitto con la Serbia, furono semplicemente lasciati fuori. E si opposero.
Sta dicendo che è stata una decisione poco lungimirante?
Hill: A posteriori, sì. Una decisione controproducente. Chi in Occidente ha preso questa decisione ha tenuto conto delle conseguenze per il Kosovo e la Serbia, ma non ha considerato le circostanze generali, giustificandola probabilmente con l’argomentazione che la Russia avrebbe protestato, ma avrebbe poi superato la cosa. Per i russi è diventato sempre più difficile accettare situazioni come questa. Di certo per Putin l’intervento della NATO in Libia nel 2011 è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La NATO si è avvalsa di una risoluzione del Consiglio di sicurezza intesa fondamentalmente a proteggere la popolazione di Bengasi e l’ha usata per un attacco che ha portato alla destituzione di Gheddafi. Nelle dichiarazioni pubbliche successive a questo evento e nel corso degli anni Putin ha fondamentalmente detto all’Occidente: vedete quello che avete fatto? Sto semplificando eccessivamente, ma agli occhi di Putin questo è quello che l’Occidente ha sempre fatto. Il punto di vista occidentale era il seguente: si stavano affrontando importanti problemi di sicurezza e cercando di dar loro soluzione – una soluzione che i russi stavano bloccando.
Nel contempo c’erano sviluppi interni in Russia, il suo ripiegamento dall’apertura e dalla competitività del primo decennio dopo la Guerra fredda. Questo rappresentava motivo di delusione per molti russi ma anche per molti occidentali. Il secondo aspetto – e credo l’unico grande problema che gli europei e gli americani avessero con la Russia – era che la Russia non trattava le ex repubbliche sovietiche come stati pienamente indipendenti e sovrani. Questo non era un grande ostacolo nelle relazioni della Russia con l’Europa e gli Stati Uniti nella fase iniziale poiché nessuno di essi era tanto interessato a questi paesi come accadde più avanti, dopo l’allargamento dell’UE e della NATO.
Sembra essere una divergenza inconciliabile.
Hill: È difficile trovare un compromesso. Si è indipendenti oppure non lo si è. Se un paese ha un droit de regard risalente al 19° secolo sui propri vicini, questi non sono pienamente sovrani e di questo si lamentavano quei paesi. Questo era il problema e la posizione adottata pressoché sistematicamente dai russi che tutt’oggi li pone in conflitto sia con i loro vicini che con l’Europa allargata e l’America del Nord che cercano di instaurare delle relazioni con tali paesi e li trattano come paesi liberi. Questo è al centro del conflitto in Ucraina, degli attuali problemi di separatismo e dei negoziati in Georgia e in Moldova.
Si è quindi passati gradualmente da una relazione fondata principalmente sulla cooperazione negli anni Novanta a una relazione ostile e competitiva se non addirittura di aperto conflitto dopo il 2014, e non c’è una sola causa all’origine di tutto ciò. Non c’è mai stato un momento in cui l’Occidente, gli USA, l’UE, importanti paesi europei o la Russia abbiano detto: questo è quello che vogliamo, vogliamo una relazione di questo tipo o una relazione come questa è inevitabile.
L’OSCE non sarebbe stata la sede per risolvere tali questioni?
Hill: Gorbaciov aveva un sogno per la CSCE e purtroppo molti degli europei e degli americani non lo condividevano, quindi la CSCE non diventò mai ciò che lui e alcuni dei russi che gli sono succeduti speravano che divenisse.
La CSCE e il processo di Helsinki erano un modo per l’Europa occidentale unita e per l’America del Nord di determinare un cambiamento positivo nel blocco sovietico. Arrivati al 1989, abbiamo creduto nell’efficacia di tali processi. Seguirono la Carta di Parigi e la dichiarazione dei valori fondamentali e l’avvio del processo di istituzionalizzazione della CSCE, che divenne l’OSCE, ma è qui che la nostra visione del futuro prese strade diverse.
Gorbaciov credeva fermamente che la CSCE sarebbe diventata un’ONU europea e la Russia membro di un Consiglio di sicurezza europeo. I russi lo proposero a più riprese. Non credo che molti europei lo avrebbero molto apprezzato perché sarebbe stato come all’ONU, dove l’Assemblea generale adotta decisioni ma nessuno ci fa caso. Presumo che se i russi avessero ottenuto quello che volevano, le cose sarebbero andate così alla fine: probabilmente sarebbe potuto essere diverso, ma nessuno aveva una visione.
Gli Stati Uniti e l’UE hanno sempre avuto una relazione ambigua con l’OSCE. L’OSCE era per ognuno di loro un rivale in modi diversi. Con la firma del Trattato di Maastricht, un’Europa più ampia e radicata è diventata l’interesse primario di coloro che erano membri dell’UE o che ambivano a esserlo. La dimensione economica dell’OSCE, il “secondo paniere”, il cui sviluppo rimaneva stentato, era considerata un rivale diretto dell’UE, tanto da non permetterle di svilupparsi.
Per quanto riguarda gli USA, la rivalità riguardava il “paniere della sicurezza” e negli Stati Uniti ci fu un dibattito reale sulla necessità di rimanere in Europa – lo so perché ero seduto nell’ufficio in cui vennero redatti i documenti su questo tema nel 1991 e 1992. Alla luce delle lezioni apprese dalla storia, gli USA decisero che fosse necessario rimanere perché il futuro dell’Europa era troppo legato al nostro. E il mezzo per consentire agli USA di rimanere in Europa era la NATO. La NATO era molto efficace, uno strumento pronto all’uso. Era molto più efficace dell’OSCE.
L’OSCE si è impegnata in ex Jugoslavia quando abbiamo creato missioni sul terreno. E nel 1992 gli Stati partecipanti hanno assegnato all’OSCE la funzione di mantenimento della pace. Ma l’OSCE non aveva alcun ufficio, nessuna capacità a tal fine. La NATO invece sì.
Lei ha partecipato allo sviluppo delle prime missioni OSCE sul terreno?
Hill: In qualità di direttore americano per la CSCE, fui io a redigere la proposta per la prima missione sul terreno di lunga durata. La CSCE aveva acconsentito ad avere missioni di buoni uffici, prima alla riunione di Vienna del 1989 e poi nel Documento di Mosca nel 1991. A Washington stavamo cercando il modo per aiutare a gestire i conflitti e a evitarne l’allargamento ed io pensai che avremmo potuto inviare missioni di buoni uffici. Tuttavia, secondo i documenti CSCE esistenti, dovevano essere visite di breve durata. Quindi proposi: “E se continuassimo a inviare persone ma garantendo una presenza permanente?”. Portammo questa proposta al tavolo della riunione preparatoria di Helsinki in vista del Vertice di Helsinki del 1992 e con mia grande sorpresa gli europei la accettarono e la adottarono immediatamente. Prepararono quasi subito una missione pronta ad andare in Kosovo, una cosa straordinaria. I tempi erano maturi per un’idea di quel tipo.
Così l’OSCE ottenne le missioni sul terreno. Gli Stati Uniti erano però molto riluttanti a inviare forze militari sulle quali non avevano il comando e per questo ci rivolgemmo alla NATO. Ma anche la NATO è un’organizzazione politica.
Quindi le questioni politiche venivano dibattute alla NATO invece che all’OSCE?
Hill: All’OSCE di norma si procedeva nel seguente modo: l’UE elaborava una posizione in seno al suo gruppo e poi si teneva la riunione del gruppo NATO, dove gli USA ottenevano una combinazione dei punti evidenziati dall’UE e dei nostri desiderata. In tal modo la NATO arrivava all’OSCE con una posizione già consolidata. Era molto difficile per un paese come la Russia o qualsiasi altro paese non membro della NATO o dell’UE far sentire la propria voce sulle questioni importanti. I russi iniziarono a lamentare il fatto che gli USA non sollevavano le questioni di sicurezza più importanti in seno all’OSCE. E avevano ragione. Quando discutevamo di tali questioni con i russi lo facevamo bilateralmente o nel Consiglio NATO-Russia. È un circolo vizioso che fa sì che i russi a loro volta non sollevino questioni importanti in seno all’OSCE. Dicono che è insensato, si limitano quindi a denunciare tali questioni in questa sede, per poi passare al colloquio bilaterale, dove si terrà il vero dialogo. L’OSCE è stata pertanto raramente un foro in cui poter tenere un dibattito.
Ritiene che l’OSCE possa diventare un vero foro multilaterale?
Hill: Ho trascorso gran parte della mia carriera all’OSCE e ho sempre sperato che facesse cose importanti. Le ha fatte in un certo senso. È diventata necessaria e si è rivelata più importante – purtroppo, a mio avviso – principalmente quando le relazioni si logoravano. Non esiste altro consesso dove ci incontriamo su un piano di parità. E quando ciò è necessario, è lì che devi andare.
Nessun’altra organizzazione, ad esempio, sarebbe stata in grado di dispiegare la Missione di monitoraggio speciale in Ucraina o la Missione di osservatori al confine tra l’Ucraina e la Russia. L’unica sede dove si possano concordare tali misure e l’unico quadro in cui tenere i colloqui sulla composizione del conflitto nel Donbas è l’OSCE, dove tutti sono membri e tutti sono uguali.
L’aspetto triste è che invece di essere la prima scelta, l’OSCE è diventata il minimo comune denominatore e l’istituzione dell’ultima ratio.
Guardando l’OSCE in questo momento, penso che iniziative come il Dialogo strutturato promettano di restituire all’OSCE un ruolo significativo che le consenta di apportare un contributo. Una sede in cui avere discussioni importanti su questioni che non vengono semplicemente accantonate perché la NATO e l’UE hanno mostrato scarso interesse o non sono riuscite a risolverle. Vedremo. È un’iniziativa da accogliere con favore.
Qual è la strada da seguire?
Hill: Considerato il deterioramento della struttura post-Guerra fredda che avevamo creato dal 1986 al 1992 e gli effetti di ciò che è accaduto dal 2014 in poi, dobbiamo realmente iniziare a dedicarci a una sorta di codice della strada che possa guidare le nostre relazioni negli anni a venire dell’epoca che stiamo vivendo, comunque sceglieremo di chiamarla. Non si tratta più di post-Guerra fredda.
Saremo meno invadenti su taluni aspetti e dovremo concentrarci su questioni importanti come il controllo delle armi e dei materiali nucleari. Vi sono nuove importanti tecnologie che devono essere considerate, nuove armi convenzionali. L’intero ambito del ciberspazio, Internet, i social media – fondamentalmente non abbiamo regole e ci stiamo rendendo conto che nessuno vuole la legge della giungla. Il modo in cui si darà soluzione a questo tipo di problemi inciderà profondamente sui prossimi due o tre decenni.
Nell’ultimo capitolo del mio saggio parlo di come quello che è stato fatto dopo la Guerra fredda, l’integrazione dell’Europa nell’UE e nella NATO, per molti versi sia stato un successo immenso – in termini di viaggi, circolazione di merci, prassi comuni e del modo in cui i popoli si mescolano.
Purtroppo il grande fallimento è stato ritrovarsi con una Russia esclusa e constatare che per lei non c’era posto. E questa, considerata l’importanza della Russia, anche a prescindere dalla sua considerevole autostima, è qualcosa di semplicemente insostenibile.
Nel costruire la prossima era, anche se ci sono cose della Russia che non ci piacciono, dovremo trovare un modo per accettarle e per includere la Russia in misura sufficiente a farle sentire di avere un ruolo all’interno del sistema.
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